"Le Ande non restituiscono ciò che portano via".
Questo è un famoso proverbio cileno che racchiude in sè la pericolosità della Cordigliera delle Ande, così vasta e alta da inghiottire chi sfortunatamente rimane tra le sue fauci.
Ma una smentita a questo proverbio arriva dalla famosa tragedia del lontano 13 Ottobre 1972, conosciuta ai più come il disastro delle Ande.
Qualche anno fa è stato fatto anche un film (il titolo era
Alive): la storia è quella di uno schianto aereo, avvenuto sulle Ande e dal quale si salvarono 16 persone.
Ma andiamo per gradi e cerchiamo di capire come questi 16 ragazzi siano riusciti a sopravvivere.
Era il 13 Ottobre 1972, un venerdì 13 (superstiziosi?): sull' aereo Uruguayana 571 c'erano 45 persone, la maggior parte dei quali membri di una squadra di rugby che da Montevideo, in Uruguay, partono per raggiungere Santiago, in Cile.
In realtà, erano partiti il giorno prima, il 12, da Montevideo ed erano scesi a Mendoza.
L'indomani mattina, per l'appunto il 13, decollarono con il 571 da Mendoza: destinazione Santiago.
C'è da fare una precisazione: un terzo di quel modello di aereo era stato coinvolto in incidenti. Nessuno ne era al corrente però.
Partirono. C'era maltempo e il pilota commise un grave errore: ci volevano 11 minuti per attraversare la Cordigliera, ma il pilota dopo soli 3 minuti pensò di averla superata.
Fu così che virò a destra, in direzione di Santiago, ma si ritrovò nel bel mezzo delle Ande, ricoperte di neve.
L'aereo, nel tentativo di superare le montagne, colpì con l'ala una cima e si ruppe in due parti: erano le ore 15e32 e il Sole tramontava alle 16.
Delle 45 persone presenti sul velivolo, 12 (quelli seduti sulla coda) morirono subito.
I 33 sopravvissuti si ritrovarono a 4000 metri d'altezza e con una temperatura che arrivava ai -30°C.
La prima notte altri 5 morirono, dopo 10 giorni i 27 sopravvissuti perdono ogni speranza di essere ritrovati in quanto la fusoliera era di colore bianco e risultava perciò invisibile sulla neve delle Ande.
Fu in quel momento così tragico che nella mente di molti di loro balenò un'idea, dettata forse dallo spirito di sopravvivenza: avevano fame e pensarono che l'unico modo per placare la fame fosse quello di mangiare i cadaveri.
Per queste ragioni i sopravvissuti sono stati soprannominati "i cannibali delle Ande": loro si sono difesi, affermando che l'appellativo di cannibali è errato in quanto il cannibalismo mira a uccidere per mangiare.
Nel loro caso si trattò di antropofagia, cioè la pratica di mangiare carne umana per sopravvivere.
Come se non fosse già abbastanza, dopo 18 giorni una valanga colpì la fusoliera, causando la morte di altre 8 persone.
Dopo 2 mesi, erano rimasti solo in 16.
Fu allora che, ormai privi di ogni speranza, decisero che dovevano fare qualcosa: spinti dalla convinzione che "A Ovest c'è il Cile", il 12 Dicembre 1972 tre di loro si allontanarono alla ricerca di aiuto, portando la carne umana in calzini.
Percorsero 65 km in 10 giorni e finalmente il 21 Dicembre 1972 trovarono la vita: un fiore, un fiume, l'acqua, i profumi.
Grazie all'aiuto di un ranchero, trovarono la salvezza: arrivarono i soccorsi e con l'aiuto degli elicotteri riuscirono a trovare gli altri 13 sopravvissuti, rimasti nella fusoliera ad aspettare.
Una vicenda incredibile che ha dimostrato come le situazioni estreme non formino il carattere, ma lo rivelino e che ci fa capire di cosa noi uomini siamo in grado di fare per sopravvivere.
Un'esperienza che ha reso diversi questi uomini e che ha insegnato loro di quanto poco ci basti per essere felici.